martedì 21 dicembre 2010

La fuga delle lepri di Caccinaccio

Venti anni fa, nella valle di Caccinaccio era in atto la fuga delle lepri. E da cosa mai fuggissero non si poteva immaginare.

La valle era in piena di belle lepri carnicine, le si poteva vedere fin dalla malga. Discendevano in larghi marosi sommossi lungo le coste delle colline, levandosi con potenti colpi di frusta in salti violenti e rapinosi. Comparivano di sopra le gronde dei monti, dai cunicoli interrati, dai cespi dei sentieri, come piccoli fiori sbocciati, e venivan trasportate via dal vento in nugoli rossicci attraverso i verdi della primavera. Fluivano queste da un versante quelle dall’altro, congiungendosi in frotte unite unite lungo le colline e la pianura, nella loro folle corsa inarrestabile.

Io me la ricordo, la fuga delle lepri, perché c’ero anch’io quando successe, e stetti insieme a Nini e a tutti gli altri a guardarle correre dalle colline. Nini non era piú un ragazzo, aveva la Clara giú in paese e pensava a maritarsi, ma tutti continuavano a chiamarlo Nini come da quando era bambino. Noi già eravamo troppo vecchi per tenerci i soprannomi della nostra gioventú, ma con Nini si faceva un’eccezione. Lui, quando tutti si era ragazzi, era il piú giovane di noi, e cosí il soprannome gli era rimasto. Mi ricordo ancora che lo guardammo saltare come un cerbiatto che scendeva in piana su dalla malga. E mi ricordo tutti, Che ciai, Nini, che ciai? E Nini, Le lepri, son tutte che scappano come il Diavolo le insegua. Che dici? E Andammo a vedere.

Avreste dovuto vederci, noi che non si credeva di aver già trent’anni, a sgambettare come ragazzi su per i colli, e a sbucciarci e sporcarci le mani e chi se ne importa. La prima cosa, pensai io d’in cima, era che quando eravamo stati ragazzi sul serio ci saremmo venduti le fionde per poter raccontare una storia del genere, e ora con tutti quegli anni di ritardo mi pareva un’ingiustizia. Stavamo tutti ritti ad ammirarle da un minuto ormai, ma Nini ci guardò tutti e disse: Eccole.

Dovevano andare da mezzora, ci disse Lorco, perché lo scalpiccio degli animali sulle piagge le aveva tutte quante rinfangate. Ma quelli continuavano a sbucare da ogni fosso, come polle del terreno, e parevan non dover finire mai. Nini e Lorco ci fecero strada per un viottolo lungo la costa, a vederle piú da vicino. Era dove un tempo andavamo a giocare e a arrampicarci dopo la scuola, coi vecchi faggi incanutiti che si lasciavano scalare tolleranti, come vecchi nonni che pazientassero ai pizzicotti dei loro nipoti. Ora ci andavamo solo a funghi quand’era stagione, coi cestini e i paraorecchie, e i vechi faggi sembravamo noi.

Da un ciglio rialzato ci sporgemmo tutti a guardare di sotto. Fatemi spazio, diceva Nini, che di qui non si vede niente. Nardi scese qualche passo lungo il declivio, badando di non scivolare, come era accortezza dei pescatori di torrente. E proprio tali e quali al correre di un fiume parevano le lepri, spumando coi ciuffi levati delle loro code ed esondando di quando in quando dagli argini del loro corso come spruzzi di corrente. Non paion spaventate, ci disse Nardi. E che fanno? Corrono. E Nini, Io, ragazzi, mi ci tuffo.

Nini ci era cascato davvero, una volta, nel torrente della Longa, sopra la malga. E noi a corrergli dietro dalla riva, coi bordoni in mano, e a schiamazzare come ossessi. Era cosí che Nini si era trovato a conoscer la Clara, perché lei abitava a valle e aveva la finestra che dava sul torrente. Ce lo pescò tutto fradicio, la Clara, ma senza un osso rotto, e se lo tenne in casa una settimana con le borse d’acqua calda che sua madre gli infilava fra le cosce nude, e Nini che arrossiva come un bambino. Questa volta, Nini, gli dicevamo tutti, questa volta…

Di’, Nini, te la ricordi l’ultima volta che sei sceso in un torrente, lo raccomandammo, te la ricordi la volta della Longa? Ma Nini si era già buttato disotto. Noi ci dicemmo, Cauti, e lo seguimmo. Le lepri scorrevano e scorrevano, infilandoci le caviglie, scivolando contro gli scarponi, ma senza temerci. Fuggivano, fuggivano le lepri, ma da cosa mai fuggissero non si poteva immaginare. Ce n’erano che la corsa aveva azzoppato, ma pur si spingevano giú per la valle, e di tanto piccole da esser di nidiata, ma pur seguivano le loro madri, e di vecchie, e di asciutte, e di grasse, e tutte pur si precipitavano per la valle, fuggendo, fuggendo, ma da cosa mai fuggissero non si poteva immaginare.

Scendemmo il corso della corrente fino alla valle. Allora Nardi ne acciuffò una per la collottola. Era vivida, muscolare, con cosce di nervi che frustavano l’aria come bracci d’alberi, e la pupilla liquida, vivace. E lasciala correre, disse Nini. Ma da che scappano? Chi lo sa. Giunti alla foce, in fondo alla valle, le correnti di lepri confluivano in una fiumara viva e ribollente che si perdeva oltre i boschi e le colline.

Seguimmo il corso ancora qualche metro, ma già la corrente di lepri si faceva piú fitta, e didietro, dai picchi, dalle falde e dai pendii, il fiume animale rombava e tonava, e cavalloni scendevano aprendosi e sperdendosi per tutta la valle. Nini levò le braccia voltandosi verso di noi, invaso dal corso dirotto di animali, come a godersi una brezza fiumana, e cominciò a ridere, assordato dalla valanga reboante. Anche noi, uno dopo l’altro, cominciammo a ridere insieme a Nini in quella tempesta in fuga. E prima che lui ci gridasse: Andiamo! Correvamo già tutti assieme con le lepri lungo la valle di Caccinaccio, fuggendo, fuggendo, ma da cosa mai fuggissimo non si poteva immaginare.

Emiliano Garonzi

mercoledì 27 ottobre 2010

Pesci

Per una questione vecchia di milioni di anni, un giorno i pesci del fiume presero a nuotare fuori dalla corrente.

Dapprima li si vide spuntare dal fiume con le loro boccucce rotonde sul filo dell’acqua, poi vennero gli occhi e le branchie, tratti verso il cielo come da una lenza invisibile. E infine le pinne, che continuando a dimenarsi come nel liquido nativo, fecero librare i pesci a mezz’aria, senza piú contatto con il fiume, e di lí fin su sulla punta degli alberi, dove presero a aleggiare con i tordi e i pettirossi, che stavano straniti a guardarli remigare fra gli alti rami dei pini come fra le loro alghe fiumane.

A chi domandava, quelli rispondevano: e perché non dovremmo venircene di fuori? È cosí bello qui. E poiché pareva impossibile obiettare qualche cosa, i pesci continuarono indisturbati la loro conquista delle terre emerse. Ci fu chi provò allora ad imitarli, gettandosi a capofitto nella corrente, ma fu necessario il concorso del bosco intero per tirarli di fuori, perché non solo sott’acqua non respiravano affatto, ma il fiume li aveva trascinati con sé per centinaia di metri, e li si dovette andare a recuperare fra gli scogli o i bacini a valle.

I pesci si dispiacquero molto della cattiva sorte dei compagni, e per por rimedio all’intera faccenda si offrirono d’istruire il resto del bosco sulla difficile arte di nuotare sospesi per aria. Gli animali piú diffidenti se ne stettero da un lato quando i primi presero parte alle lezioni introduttive, ruminando le loro perplessità. E trovarono presto d’averne ben donde, perché persino gli animali piú volenterosi non riuscirono a levarsi a un solo dito da terra. Quelle dei pesci cominciarono a parere a tutti delle semplici fandonie, e si concluse che quel loro star per aria doveva certo essere frutto d’un qualche sporco gioco di ragnatele. Presto si parlò addirittura della necessità di ricacciarli alle loro acque. Non c’eran certo alberi e rami per tutti, e i pesci eran venuti per ultimi. Se ne sarebbe fatta una cosa per bene, se i pesci non avessero preso, all’insaputa di tutti, a dar lezioni ai piccoli cuccioli del bosco. Questi infatti, come dimostrarono i pesci in un improvvisato spettacolo aereo, avevano appreso i rudimenti del nuoto senza la minima difficoltà, e se ne stettero ad aleggiare per aria di fronte alle facce strabiliate dei loro genitori. C’eran fra questi persino un paio di piccoli passerotti, i quali, abbandonato l’uso delle ali, ondeggiavano su e giú spingendosi con le zampe soltanto.

Persino i piú diffidenti non trovarono piú nulla da obiettare, e qualcuno fu visto muovere imbarazzato le zampe davanti e didietro, a imitazione dei due piccoli passerotti. Chi si provò, tuttavia, ottenne scarsi risultati, e mentre i loro piccoli già volteggiavano alla maniera dei pesci, il resto del bosco, con tutto quel batter d’ali, zampe, code e zoccoli, non fece altro che levare un fitto polverone di sabbia. Qualcuno esclamava eccitato d’essersi levato di qualche passo, ma come si rivolgeva loro lo sguardo, eccoli di nuovo precipitare a terra. Chi dimostrò il maggior impegno riuscí a far persino qualche bracciata, ma mai per piú di qualche metro, e finivano per piombare tutti a terra e rimediarsi un muso impolverato.

Fra i piccoli c’era un solo cucciolo di tasso che per quanto si sforzasse non riusciva a ottenere risultati migliori degli adulti. Se ne stava solo a saltare da un basso ramo d’abete e finir giú con un capitombolo. All’ennesimo fallimento, il piccolo tasso prese a strillare e piangere per la rabbia. Allora puntò il dito al cielo, dove i pesci stavano ancora incitando il resto degli animali a unirsi ai figli nella loro danza volante. Gridò forte e disse:

- Sono pesci! Non posson stare su per aria a muover le pinne! Il cielo è per gli uccelli. Che se ne vadano ai loro fiumi!

Un pesce, avvicinandosi, gli porse una pinna per aiutarlo nelle prime bracciate. Ma il piccolo tasso indietreggiò.

- Qui di sopra, se è per quello, non potreste neppure respirare! Pianse.

Allora fece un sbruffo con le narici e concluse:

- Dove l’avete, voi pesci, il naso?

Il pesce che aveva davanti non parve affatto impressionato, e con un colpo di coda si fece piú alto per esser ben visto da tutti. Allora si provò a imitare lo stesso sbruffo del piccolo tasso. Ma come diede nel primo soffio, il pesce si trovò improvvisamente fuori dall’acqua, boccheggiante, e precipitò al suolo, dove ancora si dibatté per qualche secondo prima di rimanere immobile e senza vita. Allora un altro pesce, di sopra un alto pino, tentò con un colpo di coda di raggiungere l’acqua del fiume, ma diede pochi colpi con le pinne che il respiro gli mancò e si accorse improvvisamente d’essere all’aria aperta, precipitando inanime al suolo. E con lui tutti i pesci, uno dopo l’altro, tentando disperati la corsa al loro fiume, caddero dimenandosi dal cielo, in un’ultima muta pioggia.

I piú diffidenti dichiararono che c’era da aspettarselo. E i cadaveri dei pesci volanti furono riversati nelle acque del fiume.

Emiliano Garonzi

sabato 23 ottobre 2010

L’identità del lupo

Quando i due lupi caddero d’in cima la quercia piú alta e imponente del bosco, uno per un verso e l’altro per l’altro, c’era in cielo la luna piena. Uno cadde per un verso, l’altro cadde per l’altro, ma entrambi perdettero i sensi, e quando si svegliarono nessuno dei due ricordava piú d’essere stato un lupo prima d’allora.

Il primo lupo si svegliò quando l’altro già se n’era andato, ma non potendolo ricordare non vi pose alcuna attenzione. Si levò di terra e prese a strofinarsi con la zampa dove la caduta l’aveva offeso, e dolendosi a sfregare in cima al capo, dove gli era spuntato un piccolo bernoccolo.

La prima cosa che notò fu l’alta quercia che gli stava didietro. Non preoccupandosi troppo delle fondamenta, guardò alle fronde alte e fitte di dove era caduto, come chi ammirandolo volge lo sguardo allo scampato pericolo. Ma non ricordando perché la quercia stesse dove stava lui, osservò solo quanto fosse piú alta e imponente rispetto a sé. Allora, toccandosi le lunghe orecchie da lupo, strette strette e puntate per aria, stupí nel non trovarvi le stesse foglie dei rami e gli stessi nodi del tronco. Deluso dalla propria scoperta si voltò. Allora vide l’agnello.

Stava rimpetto al lupo, chiuso fra due folti cespugli in fondo a un breve sentiero cieco, e immobile per il terrore. Il lupo lo guardò perplesso, pensando ancora alla quercia. Chiese il lupo all’agnello:

- Di’, tu che mi osservi, son forse una quercia?

Ma l’agnello, senza rispondere, saltò oltre i cespugli e si perdette nel mezzo del bosco. Il lupo fece per rincorrerlo, ma si spaventò di quanto naturale fosse stata la sua reazione, come quasi per un’abitudine del corpo. E l’agnello scomparve anche all’udito.

Il lupo stette ancora un poco a pensare, e infine risolse che data la propria reazione, l’agnello aveva certo che fare con lui, e poteva insegnarli chi fosse. Cosí il lupo si mise sulle tracce dell’agnello, puntando il muso al suolo e appiattendo le lunghe orecchie. Non fu difficile per il lupo seguire la pista lasciata dall’agnello, e questo ancor piú lo convinse che potesse davvero aiutarlo. Lo trovò stremato, rincantucciato nel cavo di un albero, con le zampe che ancora gli tremavano. Di lí passò per caso un giovane cerbiatto dalle corna incipienti, e il lupo lo notò. Allora si ricordò del bernoccolo e chiese all’agnello:

- Di’, guardami bene, son forse un cerbiatto?

Ma l’agnello con uno scarto sgusciò dal suo riparo e si gettò per il bosco. Al lupo dispiacque che l’agnello si rifiutasse di aiutarlo, e prese a rincorrerlo piú deciso di prima. Non passò molto che l’agnello fu raggiunto. Disse all’agnello il lupo:

- Agnello, perché fuggi via? Dimmi, che cosa ti paio?

Ma il lupo non poté finire la frase che l’agnello era già scomparso nella boscaglia. Al lupo parve scortese il fare dell’agnello, poiché altro non gli chiedeva che il suo aiuto. Quindi, ora certo di poter avere da lui la risposta che cercava, il lupo rincorse l’agnello per la terza volta. Questi raggiunse presto un’ampia prateria e prese a correre a piú non posso. Il lupo didietro teneva il passo.

- Aiutami, agnello, aiutami! Gridava il lupo.

Ma l’agnello correva e correva, senza voltarsi. Allora il lupo, sconsolato, iniziò a piangere nella corsa, disperando del proprio destino. Piangendo il fiato venne meno, e il lupo dovette sporgere la lunga lingua di fuori, ansimando e soffocando del proprio pianto. E la paura di restar solo gli sorse dalla gola in un ululo acuto e disperato. E il sangue ribollendo didentro le membra prese a correre dirotto nelle vene, mutando il terrore in rabbia e l’amaro sconforto in desiderio. Il lupo, piangendo la propria sorte, condannato all’esilio da sé stesso, non comprese súbito in desiderio di che cosa, e nella disperata corsa per la salvezza raggiunse il suo salvatore. Ma prima che potesse capire, prima di trovar ragione di quella brace che gli ardeva in corpo, il lupo affondava gli artigli nei teneri ricci del manto, e premeva le fauci serrate sul bianco collo del piccolo agnello, mescolando al proprio pianto il sangue caldo della sua preda, e unendo al grido di pietà quello disperato della propria esultanza, e ritrovando nello specchio delle viscere il volto che aveva dimenticato, il volto feroce crudele e affamato della propria identità.

Emiliano Garonzi

giovedì 21 ottobre 2010

L’amore del vecchio Riccio

Quando il vecchio riccio s’innamorò della volpe, le disse sinceramente:

- Volpe, sei tanto bella che mi sono innamorato di te.

- Non importa che tu sia un riccio, Riccio, rispose la Volpe, perché noi volpi non crediamo nell’amore.

Quando fu tornato alla sua tana, il Riccio raccolse e sgusciò quante ghiande poté trovare, per riempirle delle lacrime del suo triste amore. Lo si vedeva zampettare per i prati in cerca dei suoi gusci, e sempre con uno o due appresso, per non perdere una sola lacrima che versasse nel frattempo.

Le stagioni passarono, e il vecchio Riccio sempre a raccogliere il suo pianto. Finché venne la primavera, e il Riccio radunò tutti i suoi gusci di ghianda riempiti di lacrime e ne fece innaffiatoi per i fiori. Con questi scelse un prato davanti alla sua tana e prese ad abbeverare i piccoli fili d’erba che facevan capolino dal terreno. Finché un giorno di tra il verde del prato spuntò un piccolo bocciolo di margherita, nato dalle lacrime del Riccio. Il Riccio continuò ad abbeverare la sua margherita fino a che questa non crebbe alta e bianca, la piú bella margherita del prato.

Un giorno il Riccio smise di piangere. Allora colse la sua margherita e si mise in cerca della Volpe, per offrirgliela in dono. Ma per quanto vagasse, il vecchio Riccio non riusciva a ricordare dove avesse visto l’amata per l’ultima volta. E vagando e vagando senza fortuna, passarono le stagioni, e la bella margherita, strappata dal suo prato, prese lentamente a chinare il capo e a perdere il vivo bianco della primavera. Fino a che il povero Riccio non si vide la margherita morirgli fra le zampe, cosí come il suo amore. Ma come guardava appassire il suo piccolo fiore, di lí passò una lepre. Disse la Lepre al Riccio:

- Peccato debbano infine morire. Son tanto belle.

- Cosí, rispose il Riccio.

- Di tanto belle ne crescono ormai poche

La lepre salutò il Riccio e saltellò via per il bosco. Il Riccio, ch’era stato muto, ricordò allora dove per la prima volta aveva visto la bella volpe.

- È vero, disse il Riccio.

E tornò alla propria tana.

Emiliano Garonzi

mercoledì 3 marzo 2010

Una volta Chuang Tzu sognò di essere una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte, e ignara di essere Chuang Tzu. Allora bruscamente si svegliò, e si accorse con stupore di essere Chuang Tzu. Non seppe più allora se fosse Chuang Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Chuang Tzu.

Chuang Tzu